Storia di una casa di campagna di Enrichetta Carafa Capece-Latro (1)

Introvabile sul web, abbiamo pensato di recuperare e riproporre questo libricino su Villa delle Ginestre

“Storia di una casa di campagna: la villa delle ginestre e Giacomo Leopardi” , libricino scritto dall’ultima proprietaria della villa, è del 1934.
Enrichetta Capece-latro è nata a Torino nel 1863, discendente da una nobile famiglia napoletana, moglie di Riccardo Carafa, conte di Ruvo, duca di Andria e senatore del Regno nel 1904. Scrisse poesie e romanzi e ne tradusse molti dei principali autori russi.
Abbastanza introvabile, abbiamo pensato di recuperarlo e riproporlo nella versione originale in due parti qui sul nostro portale.
La Duchessa d’Andria morì a Napoli il 5 marzo 1941.

Wikipedia

Per rinnovato fervore di culto che in quest’anno di rievocazioni marchigiane circonda il nome di Giacomo Leopardi, non sembri strano che io voglia fare brevemente la storia di una casa che per la sua modestia non meriterebbe l’onore di essere raccomandata alla memoria dei posteri ma che è consacrata dalla dimora che vi fece il Poeta di Recanati.

Posta alle falde del Vesuvio, tra Torre del Greco e Torre Annunziata, e propriamente ai piedi del colle dei Camaldoli, questa piccola casa dové essere edificata in sulla fine del seicento, poco piú ampia delle case dei contadini. Era circondata da vigneti e da essa si scorgeva il mare non lontano. Alle spalle aveva il Vesuvio e tutt’intorno una campagna solitaria dove appena qua e là era sparso qualche abituro. Non una strada carrozzabile vị conduceva ma un viottolo tracciato fra le viti. La poca terra che la cingeva era di proprietà della famiglia Simioli, che pensò di fabbricare la casetta per passarvi qualche tempo nella bella stagione o forse per venirvi a sorvegliare la vendemmia.

Nel settecento fu alquanto ampliata per opera del canonico Giuseppe Simioli che vi eresse una piccola cappella ove soleva dir la messa nel tempo che passava in villa.
Il canonico Simioli, amico di Bernardo Tanucci, era uomo dotto nelle discipline ecclesiastiche ma amava anche le piacevoli conversazioni, e in quella casetta di campagna convenivano uomini di fama nelle lettere e nelle arti. Vi era familiare il Vanvitelli, che pare, per compiacere all’amico canonico, una sera dopo cena tracciasse il disegno della scaletta, semplicissima ma di giuste proporzioni, che conduce al primo piano.
Il canonico Giuseppe Simioli è sepolto nell’antica basilica di Santa Restituta, unita al duomo di Napoli, dove si vede un suo busto marmoreo con un’epigrafe dettata dal nipote Andrea, erede dello zio, anche lui canonico del duomo di Napoli, anche lui uomo di svariata cultura. Ecco l’epigrafe:

«Josepho Simiolio | neap. eccl. can. theologo | seminarii urbani rectori | clerique secretario | in regio lyceo theologiae primum | dein hist. concil. professori | et ab Antonini card. Sersali | archiep. neap. obitu | vicario capitulari | viro incomparabili | cui ingenii amplitudo | agendique dexteritas | singularem omnium ordinum extimationem | regiaeque ac pontificiae aulae | non vulgarem gratiam conciliarunt | Vixit annos LXVI m. VI d. XXVI | obiit an. MDCCLXXIX | Huic Andreas can. Simiolius | patruo benemerentissimo | moerens p. | collegae locum dederunt.»

Nella casetta vesuviana si conserva il ritratto ad olio di un ecclesiastico in abito canonicale: è il ritratto di Giuseppe o di Andrea?
Una sorella di Andrea Simioli a nome Margherita sposò mio bisavo Diego Ferrigni Pisone, di antica famiglia ascritta al registro delle Piazze Chiuse di Bari. La casetta formò parte della dote di Margherita o le pervenne per eredità del fratello ma certo divenne proprietà dei Ferrigni.
Nella contrada però rimase vivo il nome dei Simioli e qualche vecchio ancora la indica come casa dei Simioli. Anche i contadini che coltivavano il podere erano chiamati Simioli.

I Ferrigni continuarono ad andare in villeggiatura colà e non furono interrotte le tradizioni ospitali dei due canonici. Molti amici, e fra questi alcune persone di spiccato valore, frequentavano la piccola casa ridente fra i vigneti, attirati dalla bellezza del luogo e dalla semplice cordialità degli ospiti.
Diego Ferrigni ebbe sette figli: Salvatore, che morí in giovane età, Francesco Saverio che si diede al sacerdozio, Giuseppe, che fu mio nonno, Andrea, canonico teologo della cattedrale di Napoli, professore e rettore dell’università, Ignazio che entrò nella compagnia dei Signori della Missione, Aurelia che fu religiosa col nome di Maria Caterina, prima nel monastero delle Cappuccinelle e poi in quello del Gesú delle Monache, e Chiara che fu collocata nel secolo, come si diceva allora.
Francesco Saverio ebbe fama di santo e davvero fu uomo di grande carità. Raccolse un buon numero di orfanelle e le nutrí e le educò a sue spese finché bastò il suo patrimonio; poi seguitò a mantenerle con le elemosine che andava chiedendo in giro, accolto spesso con ripulse e talvolta anche con insulti. Un giorno al suo ospizio mancava perfino il pane. Francesco Saverio non si sgomentò. Pregò un carrettiere di sua conoscenza (egli aveva molti amici fra gli umili) di prestargli il suo carretto. Il carrettiere non consentí che il prete lo spingesse da sé, ma lo accompagnò, spingendo il carretto per i vicoli della vecchia Napoli dove era situato l’ospizio. I due si fermarono davanti a tutte le botteghe dei panettieri, i quali, commossi a quella vista e conoscendo la carità di Francesco Saverio, si affrettavano a porre sul carretto quanto piú panelli potevano. La quantità di pane raccolta fu tale da bastare per piú di tre giorni a tutto l’ospizio.
Francesco Saverio era cosí acceso in questo amore dei poveri che si faceva mancare financo il necessario e si riduceva talmente lacero che il fratello Giuseppe a volte gli somministrava del denaro per farsi una sottana nuova; ma egli dava il denaro ai poveri e rimaneva con la vecchia sottana a brandelli, sicché il fratello era obbligato a fargli far lui qualche abito decente, non potendo consegnargli denaro che era subito trasformato in pane e robe per i miserabili invece che per servire a rivestir lui.
Andrea invece, piú aristocratico e meno fervido di zelo, fu uomo di grande erudizione, scrisse un’opera voluminosa in latino Institutiones biblicae, e libri di liturgia sacra e di catechistica; si occupò anche di politica e nel ’48 fu eletto Deputato, ma rinunziò alla carica. Finché visse (morí nel 1859) soleva passare alcuni mesi nella casetta di campagna, diventata proprietà del fratello Giuseppe, e tutte le mattine, invece che nella cappelletta domestica, saliva a dir messa nella chiesa dei Camaldoli e spesso si tratteneva a desinare nel convento.

I Camaldolesi hanno una regola severissima, mangiano di magro tutto l’anno e, meno che in alcune feste solenni, sono astretti al silenzio. Il solo superiore ha facoltà di discorrere con gli ospiti del convento. Malgrado la frugalità dei loro pasti, i frati camaldolesi di Torre avevano fama di saper ammannire alcune pietanze in modo assai gustoso ed era fra essi specialmente in onore un certo fritto di salvia con una salsa della quale essi avevano il segreto.
Fino a poco tempo fa sul colle dei Camaldoli, tutto coperto da un magnifico bosco di querce, si vedeva una lapide di marmo con la scritta: «Le donne non possono oltrepassare questo limite sotto pena di scomunica». In quell’epoca il convento era un centro di vita fra quei luoghi deserti. Nella notte si udiva per la campagna il suono della campana che chiamava i frati al coro, e fin dalla prima alba si vedevano biancheggiare fra il folto delle querce le tonache dei Camaldolesi che andavano alle loro varie incombenze. Come si sa, ogni frate aveva la sua cella, circondata da un giardinetto con un pozzo, e la cella si componeva di una stanzetta da letto, di un oratorio e di una cucina.
Da lungo tempo oramai tutta quella poesia è scomparsa. L’ultimo frate camaldolese, un converso, rimasto, dopo la soppressione del convento, a guardia della chiesa, è vissuto fino a età tardissima, e io, bambina, lo guardavo stupita da quell’abito bianco, da quella gran barba bianca, da quella testa bianca tutta tremolante. Mia zia Argia Ferrigni ne fece un ritratto che si conserva tuttora alle «Ginestre».

Ma torniamo alla fine del settecento. I figli bambini di Diego Ferrigni e di Margherita Simioli godevano di quella spensierata libertà della campagna e amavano con tutto l’ardore della loro età la piccola casa solitaria dove passavano parecchi mesi dell’anno, ammaestrati negli studi dallo zio Andrea Simioli. Accanto alla casa, non so come, nacque un pino e mio nonno si divertiva a piegarlo con le sue manine infantili. Ora il pino è un albero gigantesco e ombreggia la casa con l’ampiezza dei suoi rami.

Ma un brutto giorno dell’anno 1806 la famiglia fu costretta a fuggire perché il Vesuvio in eruzione minacciava la casa con una formidabile colata di lava. Da Napoli i ragazzi seguivano le vicende del cataclisma con un’ansia piena di sgomento. Si pensava che la casa sarebbe stata inghiottita dalla lava vulcanica. Invece fu distrutto quasi l’intero vigneto, ma la casa restò incolume. Dopo alcuni mesi, quando i Ferrigni vi tornarono, si vedeva ancora fumare la lava, e i ragazzi, malgrado le ammonizioni dei genitori, si avvicinavano, curiosi e paurosi, a guardare il fuoco che traspariva qua e là sotto le scorie nerastre.
A poco a poco sulla lava brulla si andò formando uno strato di terriccio e vi spuntarono delle ginestre.
In breve la lava fu tutta coperta di ginestre e nel maggio era un mare giallo e odoroso che non faceva rimpiangere, per la sua bellezza, i vigneti distrutti. Così era quando nel ’36 Giacomo Leopardi vide per la prima volta quei luoghi, e forse da quella prima vista gli nacque in mente l’idea della Ginestra.

Nel 1826 mio nonno aveva sposato la giovanissima Enrichetta Ranieri, sorella di Antonio.
Mia nonna fu bella della persona, di carattere fiero, pronta agli entusiasmi, ardente di patriottismo, insofferente della tirannide borbonica. Poco piú che ventenne aveva già avuto quattro figlie: Argia, Clotilde, Ifigenia, Calliope che fu mia madre. Ifigenia morí quasi nel nascere, Clotilde a sedici anni dopo una lunghissima, straziante malattia. Argia e Calliope crebbero insieme, studiarono insieme, si amarono di uno straordinario affetto, circondate dalle cure assidue del padre, magistrato di valore e letterato. Ma quando Giacomo Leopardi venne, ospite di mio nonno, ad abitare la villetta vesuviana, mia zia aveva nove anni e mia madre appena cinque. Il Poeta, poco amante dei bambini, faceva un’eccezione per la «Calliopina», che è ricordata anche in una lettera di lui ad Antonio Ranieri.
Con pronta cordialità, mio nonno aveva offerto al cognato Antonio la sua casa di campagna, che egli aveva alquanto ingrandita, perché vi menasse l’amico Leopardi. Antonio Ranieri, dopo aver passato alcuni anni in esilio, era tornato a Napoli ad abitare la casa paterna, donde ripartí per andare a prendere a Firenze, nell’ottobre del ’33, il Poeta infermo e dolorante. Francesco Ranieri suo padre, vedovo di Luisa Conzo, aveva dieci figliuoli: Anna, Antonio, Enrichetta, Giuseppe, Giulia, Erminia, Goffredo, Luciano, Teresa e Paolina. É naturale che non vedesse di buon occhio l’arrivo di questo forestiere, e con stento permise al figliuolo Antonio di lasciar la sua casa e andare, in un quartierino preso in fitto, con l’amico e con l’adolescente sorella Paolina e soltanto per intercessione del genero Ferrigni consentí a fargli un modesto assegno. Bisogna pensare che a quel tempo il genio del Leopardi non era ancora pienamente riconosciuto e si deve comprendere come quel povero vecchio non gradisse che il suo figliuolo, il maggiore dei maschi, si sviasse dalla carriera del foro che aveva intrapresa per andar dietro alle fisime poetiche di questo conte di Recanati. – Se fosse un vero letterato – diceva – Del Carretto gli darebbe un impiego. – Paolina, invece, era tutta ardore e zelo per la sua missione d’infermiera e circondava di un culto religioso, nel suo candore quasi fanciullesco, quel grande spirito infelice.

Al Leopardi fu data la piú bella camera della villa e mio nonno e mia nonna si adoprarono a procurargli tutti quegli agi che la difficoltà dei luoghi e dei tempi consentiva. Allora si andava alla villa con la carrozza a tre cavalli che si fermava sulla via nuova, la quale ora si chiama strada provinciale, e si smontava nel cortile di un casamento che era stato un ritrovo di caccia dei Borboni ma che allora era di proprietà del medico condotto, un certo don Cesare Casotti che andava a far le sue visite per la campagna a cavallo, con due bisacce che gli pendevano ai lati della sella per riporvi le robe mangerecce che gli davano i contadini, spesso come unico compenso.
Il canonico Ferrigni non fu molto contento di vedere in casa il Leopardi, di cui conosceva le opinioni poco ortodosse, ma per debito di ospitalità gli si mostrò cortese. Per altro, quando fu andato via, col pretesto di non so quale festività religiosa, volle ribenedire tutta la casa.

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