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Tratto dagli
Itinerari Torresi
1994 - pagg. 298/303
 
 
FESTA DEI QUATTRO ALTARI
 
«Niculino Ascione»

"Il titano della scenografia, della prospettiva e del colore "



(...) Fra le virtù popolari di Torre del Greco c'è sempre stato e c'è uno spiccato sentimento dell'arte. Il parere del popolo in generale, ma di quello torrese in particolare, sulle opere d'arte è stato sempre attento e giudizioso. Nell'opinione del popolo è radicato il senso del buon gusto e soprattutto quello del «grandioso» e nella nostra festa, una volta, tutto era grandioso.
La meschinità non ha mai destato l'interesse e l'ammirazione del popolo e quindi, se oggi la festa non è sentita e quasi non voluta dal popolo, i motivi vanno ricercati proprio nell'assenza totale di quella grandiosità che era il motivo dominante della manifestazione.
Meschinità mentale purtroppo oggi è in coloro che ignorano o fingono di ignorare le forze e le capacità dei torresi e che, ove lo volessero, operando lentamente e mettendo da parte ogni prosopopea, potrebbero riportare agli antichi fasti la celebrazione di Quattro Altari.
E invece come sempre pronti ad esaltare chi viene da oltre Fiorillo e a denigrare i fratelli concittadini e qualche volta anche gli amici.

'Nce vo' 'o penniello 'e Niculino Ascione
pe' 'ngarrà 'a ténta 'e stu mellòne!...

gridavano una volta i venditori di cocomeri.
Nella fantasia popolare era viva, più viva della rossa polpa dell'anguria, l'ammirazione per l'arte di questo titano della scenografia, della prospettiva e del colore.
Se Enrico Taverna fu insuperabile per le decorazioni luminose, Nicola Ascione (1870/1957) rivoluzionò la tecnica di costruzione degli altari.
I primi altari venivano costruiti di stoffa ed erano chiamati di panno o di «paratura». Gli altari di questo tipo erano a rilievo limitatamente agli aggetti architettonici e non erano poi esclusivamente di stoffa, poiché si usavano anche il cartonaggio per la costruzione delle statue, i veli per le nuvole, e la carta dorata, argentata e colorata per le decorazioni.
Ma la maestria dei torresi era l'altare di fabbrica con mosaici decorativi di corallo e di conchiglie.
Il «mistero» posto davanti all'altare era sempre una scultura raffigurante qualche personaggio biblico.
Verso la fine del secolo scorso vi lavoravano Pasquale Carmosino e Giuseppe Bottiglieri detto « Cecasanti ».
Nicola Ascione si faceva intanto, come suol dirsi, le ossa e dopo aver partecipato fin da giovanissimo alla festa, nel 1899 si impose definitivamente.
In quell'anno, oltre alla «porta» di Capo Torre, che era luminosa ma era dipinta su tela, eseguì l'altare di fabbrica a via Fontana, lato Cavour, detto «l'altare d' 'a Calabresella» ed essendo il grande quadro «i martiri cristiani». Quel quadro, dopo la festa, fu collocato sulla porta principale all'interno della chiesa di S. Croce. Era largo quanto la navata centrale ed è stato lì, molto ammirato perché di ottima fattura, fino a quando, vigliaccamente, per congiura e per invidia, lo buttarono giù distruggendolo.
Vennero poi i grandiosi, imponenti altari di fabbrica dipinti a fresco che destavano l'ammirazione e la meraviglia dei forestieri e, nello stesso tempo, l'orgoglio dei torresi per il loro bravo «don Nicolino».
Egli era una «forbice» taglientissima e aveva molte canne di ragione per esserlo: durante la sua lunga operosa vita dovette sempre lottare contro la malignità e non di rado subire ingiusti torti e quindi dei dispiaceri che lo costrinsero infine ad allontanarsi dalla sua amata Torre e dal popolo che tanto lo amava e lo stimava, e al quale egli ricambiava del suo affetto.
Nel periodo in cui insegnava all'Accademia di Belle Arti di Lucca (è sempre la solita storia) alcuni tirapiedi volevano farlo fuori dalla festa con la scusa che non aveva presentato a tempo il bozzetto.
Un amico che faceva parte del Comitato, accortosi della subdola manovra, spedì a Lucca il seguente, testuale, telegramma:

«
Acqua 'mbrugliata manna bozzetto»

Chi ha le tempie bianche deve ricordare « don Nicolino » quando, verso il tramonto scendeva dall'impalcatura e con il suo inseparabile sigaro toscano tra le labbra, seguito dal fedele Salvatore Giobbe, si metteva con le spalle ai cancelli del passaggio a livello della ferrovia ad osservare come asciugava il colore, per fare il consuntivo della giornata di lavoro e per preparare quello del giorno seguente.
Come per un appuntamento dato, si formava una folla di ammiratori e di curiosi e anche le donne con i bambini in braccio si avvicinavano. Erano le donne del popolo, quelle della marina, dove «don Nicolino» abitava. Lui le conosceva tutte e conosceva i loro figli, a uno a uno, e tra uno sguardo all'affresco dell'altare e una ennesima accensione al sigaro (consumava tonnellate di fiammiferi), li chiamava per nome e li accarezzava rimanendo lì fin quando il crepuscolo faceva diventare tutto grigio.
E così ogni anno, salvo qualche interruzione che avveniva quando a dipingere l'altare, anche ad affresco, era chiamato un altro insigne artista torrese, Salvatore Sammarco.
Alla ripresa della festa, dopo la triste parentesi della secondo guerra mondiale, «don Nicolino» avrebbe voluto risalite sull'impalcatura ma, ahimè!, l'altare di fabbrica non fu più costruito.
In una uggiosa e piovigginosa giornata del marzo 1957, era di venerdì, si spense nella sua casa di Napoli nel popoloso e popolare Bordo di S. Antonio Abate.
Una antica credenza vuole che i moribondi negli ultimi attimi di vita rivedano le cose care della loro vita.
Amo perciò credere che
don Nicolino, in quei momenti estremi, sia risalito idealmente sull'altare e, dall'altezza di trenta metri abbia abbracciato ancora una volta, con lo sguardo, la sua amatissima città e, ancora una volta, si sia afflitto per non aver trovato in essa, che pur si vanta «il paese degli artisti», nessuno cui affidare i suoi colori e i suoi pennelli...