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Relazione storica
Per il comune di
Torre del Greco
Novembre 1978
 
 
Relazione storica sull'utilizzazione dell'acqua del Dragone e delle pubbliche fontane a Torre del Greco
 

Dell'acqua della pubblica fontana di Torre del Greco, una prima notizia l'abbiamo da alcuni storici napoletani del '600; quali il d'Engenio, il Beltrano ed altri (1671). Così scrivono:
La Torre del Greco, la quale sebbene viene compresa col Territorio di Napoli, non è altrimente Casale, ma Castello ben munito e habitato da persone civili. Questo Castello è situato presso la riva del mare in luogo eminente, e nella rupe che sovrasta al lido del mare alle falde del Monte Vesuvio, fu la villa d'Alfonso I, vaghissima per la vista c'havea (sic) verso Napoli, Sorrento, l'Isola di Capri, e il Promontorio di Miseno insieme con gli altri luoghi marittimi.
Sotto la Villa al lido vi è un bel fonte di chiare e fresche acque, ove il detto Re nel tempo dell'estate solea spesso diportarsi".
A quei tempi il detto "fonte" (non si parlava ancora di fontana) era talmente vicino alla battigia, che fu necessario costruire un muro di difesa, onde evitare che col mare agitato o con l'alta marea, l'acqua marina si versasse in esso fonte.
Il 16 dicembre del 1631 il Vesuvio, inattivo da circa mezzo millennio, riprese la sua attività con una catastrofica eruzione come quella del 79 d.C.
Con l'eruzione, e anche dopo, per i detriti di cenere, sabbia e pietre eruttate dal vulcano e trasportate fino al mare dalle alluvioni che seguirono, la riva risultò allontanata di parecchio dalla rupe del Castello, per la formazione di una nuova fascia di terra, dai torresi chiamata "mare seccato".
Il sovrastante Castello, frattanto si sgretolava col passare del tempo. Le torri di difesa erano già crollate da circa due secoli (forse) il 5 dicembre del 1456, per un violentissimo terremoto e, per la continua erosione delle onde del mare e della salsedine, anche parte dell'ampio cortile quadrato era franato successivamente, seppellendo sotto le macerie il fiumiciattolo che, malgrado tutto, continuava a serpeggiare sulla nuova terra, riversandosi in mare.
Il nostro grandissimo concittadino Francesco Balzano, conosciuto da noi torresi più come storico che come poeta, ed in verità il più grande poeta dialettale del Seicento, tale da essere definito dall'abate Galiani, il Petrarca del dialetto napoletano, e rimasto nell'ombra per aver firmato il suo poema "La 'Tiorba a Taccone" col pseudonimo di "Filippo Sgruttendio da Scafati"...Francesco Balzano, dicevo, così descrive il "quadro":
"...benchè il luogo sia in gran parte sotterrato, e di sassi ripieno, à cui vicino il mare, come in tutta la riviera, che poi nell'incendio del Vesuvio dell'anno 1631, tiratosi addietro, e discosto un tiro di moschetto, queste acque uscendo allo scoverto, formano un picciolo rio, portandosi placidamente a dare al mare quello poco tributo che possono". E così prosegue: "E' questo luogo, dove l'acqua, con piccioli bolli, esce buona ancora a bere, come quella dell'altro fonte poco discosto, chiamato da' paesani la fontana dello Monaco (vedi a pag.3 sulla pianta: lettera F) che con recinto di mura e disopra coperto di lamia, dà comodo e secreto ricovero alle donne per lavarvi i loro panni, proibito con pene dalla Università a chi si sia huomo l'entrarvi, essendovi femine".
La fontana "dello monaco", più fonte che fontana era alquanto antica. NeI 1547 già esisteva e, come abbiamo già detto al principio, era protetta da un muro che impediva al mare di invadere la fonte. Il barone del tempo, Fabrizio Carafa, non avendo potuto mettere le mani sul corallo dei torresi, per vendicarsi ordinò ad un suo giannizzero, un certo capitano Fabio Lembo, di demolire il muro di protezione. Ma quando il Lembo con alcuni operai armati di picconi si apprestavano ad eseguire gli ordini ricevuti dal barone, i torresi insorsero capitanati da tale Pietro Ascione il quale rivolto al capitano delle guardie, con tono alquanto rninaccioso, lo apostrofò con queste parole: Se tu sfabbrichi lloco, io ti buttero' da lloco...
L'acqua che affluisce alla zona da noi limitatamente circoscritta, è una minima parte di quella esistente nel sottosuolo. Francesco Balzano lo affermava nel 1638, quando scriveva:
"...benchè sotterranea cammini, si diffonde per tutte queste marine da]. capo dell'Angino, ch'e' un miglio distante dalla Torre Annunciata, fino al Granatello". Più tardi, nella seconda metà del Settecento, lo confermerà un altro cittadino torrese, non meno grande di Francesco Balzano, il naturalista Gaetano de Bottis, come vedremo da qui a poco.
Nel '700 l'acqua, che gli storici unanimamente ritengono essere quella del fiume Dragone, sotterrato e disperso in epoca immemorabile da una eruzione del Vesuvio (forse quella del 685) alimentava i lavatoi sotto la scala della "ripa", proprio allo stesso punto di oggi, mentre un altro rivolo, incanalato rudimentalmente conduceva l'acqua alla fontana "dello monaco" a cui accennava il Balzano, e si trovava come si è detto, a metà strada tra le scale della "ripa" e la sommità dello scalone dell'attuale fontana. Detto tratto era denominato via del Fiumarello.
Per l'inefficienza dei condotti, l'acqua si era impaludata e poi dispersa, diminuendo sensibilmente la portata. Ma, grazie a Gaetano de Bottis, i torresi non restarono senza l'acqua.
Con arditi scavi egli riuscì a raccogliere l'acqua dispersa e a rintracciarne dell'altra, convogliandola in nuovi e più idonei formali, nonostante il dissenso della popolazione che ad un certo punto, nel vedere i lavori svolgersi tra infinite difficoltà, temeva perfino di perdere l'acqua che già esisteva, anche se era scarsa e torbida. Però il de Bottis non perse mai la fiducia in se stesso.
Sorsero così, in grottoni ricavati nel muro di contenimento e nel terrapieno della rupe sotto il castello, tre nuove opere del De Bottis, allineate lungo la via del Fiumarello (oggi Via Fontana). Si notavano nell'ordine:
I° I lavatoi nuovi, per distinguerli dai vecchi sotto la scala della ripa, (vedi sulla pianta a pag.3: lettera H), il molino azionato dall' acqua (lettera G) e la nuova fontana a ventotto cannoli che il De Bottis progettò con un certo decoro architettonico (lettera E).
Nella opera "Istoria di varj incendi del Monte Vesuvio" - Stamperia Reale 1786, ce ne parla lui stesso, uomo impareggiabile per modestia, senza accennare minimamente alle opere da lui realizzate, si limitò a parlare soltanto dell'acqua, confermando quanto aveva detto Francesco Balzano un secolo prima. Ecco il brano:
"Nella Torre del Greco, di presso al mare, vi è un bellissimo fonte. Esso è così copioso che dà acqua per 28 cannoncini, a tutto quel popolato paese e oltracciò, quella che rimane, volge un mulino che macina nel tempo di 24 ore 30 tomoli di grano o circa"; ed aggiunge:

"La detta acqua si trovò' per una mia congettura, che fu esaminata ed approvata dal famoso Architetto Vanvitelli e se il Comune del mentovato Paese volesse continuare lo scavo in altri vicini luoghi, se ne potrebbe discovrire dell'altra che in gran copia, occultamente, si scarica in mare".
E questa l'occasione buona per ricordare che Gaetano de Bottis, oltre alle opere da noi fin qui citate, costruì un grande edificio al largo della ripa, destinato a Dogana della Farina, un altrettanto grande pubblico mercato e ristrutturò ed abbellì la Porta di Capotorre.
Come per un crudele scherzo del destino, il 16 giugno del 1794 delle opere di questo illustre cittadino torrese non esisteva più niente.
Egli però non vide la distruzione della città che gli dette i natali. Si era spento infatti a Napoli, nella sua casa di Vico Candelora, il 10 maggio del 1790.

In quella "immane eruzione", come dice la lapide del campanile, incominciata la sera del 15 giugno, il 16 seguente la lava, circondando a tenaglia la rupe del castello, seppellì tutto, arrestandosi al punto preciso dove oggi c'è la sommità dello scalone della fontana. Aggiungiamo subite che tutto lo scalone segna l'altezza della lava che distrusse l'intera città.
Con la distruzione pressocchè totale dell'intero centro urbano e con le cisterne e i pozzi sepolti sotto un altissimo strato di roccia basaltica, i torresi restarono quasi totalmente privi d'acqua.
Per far fronte ai loro più urgenti bisogni, scavarono un pozzo in prossimità del Largo S. Giuseppe alle Paludi e da lì attingevano acqua quasi salmastra frammista a terriccio. Contemporaneamente i nostri avi, come talpe, scavarono disperatamente sotto la roccia ancora calda ed esalante gas venefici, fino a raggiungere la zona dove erano sepolti il molino, i lavatoi e le fontane. Ritrovata l'acqua e non disponendo allora dei mezzi meccanici per poterla sollevare, fu giocoforza convogliarla in un punto più basso e lo trovarono a poco meno di un centinaio di metri nella zona adiacente alla spiaggia detta del "Fronte"e lì costruirono il padiglione che ancora oggi vediamo, allogandovi sia le fontane che i lavatoi e, per accedervi, costruirono il lungo scalone.
Un'immagine dei luoghi, l'abbiamo da un disegno del pittore Achille Gigante, qui riportate. Dal grafico, eseguito per il libro di Francesco Alvino, "Viaggio da Napoli a Castellammare" edito nel 1845, si può rilevare chiaramente come in quell'anno sia la fontana che lo scalone erano pressappoco come sono oggi.
Nell'opera testè citata, nella parte descrittiva, tra l'altre si legge:
"La fontana che vedesi a piè del Castello, e che una volta facea parte di queste reali delizie (allude ai tempi di Alfonso d'Aragona e Lucrezia d'Alagno) oggi è addetta al pubblico uso. Poi, avendo udito decantare tanto quell'acqua, l'Alvino aggiunge: Dalle falde del Vesuvio discende quest'acqua, ed in gran copia, come, vedete. Mi dicono pure essere ottima a bere, come quella che bevuta non aggrava le stomaco, e racchiudendo non so che parti minerali è molto giovevole alla salute
Inutile aggiungere l'importanza capitale che l'acqua della fontana aveva per l'industria del corallo non essedovi allora acquedotti.
La Fontana era il luogo dove i "lustratori" si recavano per lucidare il corallo.
Alcuni giorni prima, durante e dopo l'eruzione de11'8 dicembre 1861, per i vari ed intensi fenomeni vulcanici verificatisi, la Fontana subì gravissimi danni. Scrisse il prof. Luigi Palmieri, direttore dell' Osservatorio Vesuviano:
"I pozzi di Torre del Greco, questa volta invece di disseccarsi innanzi l'eruzione, elevarono il livello delle loro acque, le quali si vedevano rapidamente bollire per copiosi svolgimenti di fluidi aeriformi che attraversavano il liquido.
"L'acqua della fontana crebbe tanto di mole, che ruppe in più punti l'acquedotto e divenne un copioso ruscello che si scaricava nel mare".
A queste occorre aggiungere che la temperatura dell'acqua raggiunse i 380 centigradi.
Ancora una volta la sventura si era abbattuta su Torre del Greco. La città restò semidistrutta non dalla lava che si era fermata in località Scappi, ma dal forte bradisismo che in 24 ore fece sollevare il suolo di un metro e dodici centimetri. Tale fenomeno provocò la caduta di quasi tutti i fabbricati edificati sulla lava del 1794. Ed è come dire l'intero centro urbano.
Per la Fontana, l'Amministrazione Cemunale, oltre alla ricostruzione dei "formali"(condotti),decise anche la ristrutturazione del padiglione, nell'intento di renderlo più funzionale e, nello stesso tempo, più leggiadro dal lato architettonico. Il provvedimento interessò altri due edifici pubblici: il vecchio teatro "Aurora", ribattezzato "Garibaldi, e il mercato del pesce, attiguo alla chiesa di Santa Maria di Costantinopoli, la cosiddetta "Pescheria". Lo stile dei tre edifici autorizza a credere che vi fu un unico progettista. Dei tre, soltanto la Fontana ha l'aspetto veramente pompeiano, per gli altri si tratta semplicemente di colore, meglio dire di...attintatura, se si eccettua il classico impluvio della "Pescheria".
La Fontana ristrutturata ed abbellita, venne inaugurata nel 1879 e così la ricordiamo fino agli inizi della seconda guerra mondiale.
NeI 1929, cinquantenario dell'inaugurazione, il Comune restaurò l'edificio negli intonachi e nell'attintatura.

La storia della nostra città, tanto preziosa quanto poca per il vulcano che ci sovrasta, rivive in ogni vecchio edificio, in ogni antico monumento e perfino nelle pietre. Tutto ci ricorda i nostri Avi che amarono tanto la loro città, da ricostruirla più bella e in poco tempo, ogni qualvolta il Vesuvio la distruggeva e, tanto più eroicamente, senza attendere l'aiuto di chicchessia, come afferma Pietro Colletta a proposito dell'eruzione del 1794, con la seguente esclamazione:
"Furono le cure del Governo solamente pietose, impedita la liberalità dalle strettezze dell'erario. In breve tempo, sopra il suolo ancora caldo, videsi alzare nuova città, soprapponendo le case alle case distrutte, e le strade alle strade, i templi ai templi. Possente amor di patria dopo tanti casi di esterminio, si direbbe cieco ed ostinato se in esso potesse capir difetto!"-
Conservare, perciò, l'aspetto della Fontana così come era e come e', certamente, nei propositi della Civica Amministraziene, significa, oltre a rispettare la storia, perpetuare la memoria dei torresi per i loro operosi ed eroici antenati.

novembre 1978
Raffaele Raimondo