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Tratto dai nn°12-13
de LA TORRE -
29 Agosto 1966
 
 
Quel falso burbero, quel nobile cuore di
un grande artista torrese-napoletano
 
Ernesto Tagliaferri
 

di Raffaele Raimondo

Un importante ditta conserviera napoletana nel reclamizzare la pasta alimentare di sua produzione afferma, giustamente, che è «Vera Napoli».
Un'altra ditta del nord fa sapere invece che basta una pentola colma d'acqua in ebollizione, versare in essa la pasta, naturalmente quella della ditta, e si diventa immediatamente una cuoca perfetta.
Mettiamo da parte gli «slogans» pubblicitari quasi sempre abbastanza cretini e constatiamo invece, non senza una punta di amarezza, che la profezia di Franceschiello fatta al momento di lasciare la fortezza di Gaeta in quel lontano 14 febbraio 1861 : «Non vi lasceranno nemmeno gli occhi per piangere», si è avverata.
Napoli era una città ricca di fiorenti industrie. Tenevamo gli spaghetti, le pizze, le vongole, i «purpetielli», le cozze e i frutti di mare in genere. I «forestieri» inorridivano al solo sentire che noi mangiavamo quella roba. Poi...!!!
Avevamo ancora la migliore pasticceria del mondo. I gelati esistevano quasi solamente a Napoli: Il «caffè espresso» è stato inventato a Napoli. Era un primato indiscusso, anzi lo è ancora, pure se le macchine per prepararlo vengono dal nord e non potranno mai uguagliare la caffettiera napoletana. Si, proprio quella di latta stagnante che spesso si rovesciava sul fornellino e sentivi spesso una voce proveniente dalla cucina: «S'è abbuocata a cafettera!...» L'industria del cuoio, delle pelli, dei guanti. Cose ridotte a semplice artigianato in via si estinzione totale.
Inutile parlare di arsenali, cantieri soppressi o trasferiti altrove. Oltre a tutto e soprattutto avevamo la canzone. Ci hanno tolto anche quella. Ce l'hanno tolta il pregiudizio stupido che il parlare e quindi il cantare in dialetto esprime volgarità e poco cultura e i «festivals».
Sapete chi furono i primissimi organizzatori del primissimo «festival»?
Furono Ernesto Murolo ed Ernesto Tagliaferri : Sanremo 1932. La manifestazione fu chiamata : «Festival di canti, di tradizioni e di costumi».Nel 1951 fu ribattezzato : «Festival della Canzone Italiana»...
Negli ultimi anni sono calati come i barbari di un tempo i cantanti stranieri, molti dei quali di colore, e sono venuti a ...cantare nella terra dove il canto è nato e che non dovrebbe avere nulla a vedere con il rumore assordante che chiamano musica e con le parole melense e stupide che chiamano versi.
Con una buona radio-ricevente nelle ore notturne si può benissimo accertare che a Vienna prevale sempre il valzer, che a Parigi le canzoni hanno ancora il loro spiccato accento parigino, che la Spagna conserva intatta la sua tradizione musicale. E senza bisogno della radio sappiamo tutti che a St. Louis o a New Orleans imperano incontrastati i canti spirituali negri e il Jazz...caldo o freddo. In Italia abbiamo un miscuglio di...niente.
A Napoli si sono accodati, è il caso di dirlo, perché da prima sono diventati gli ultimi. Cantano ?No, si lamentano. E' una lagna generale. Chiudono gli occhi, serrano le mascelle, si dimenano, e chi guarda non riesce a rendersi conto se quella gente stia cantante o stia sottoponendosi all'estirpazione, senza anestetico, di una unghia incarnata.
Hanno soppresso Piedigrotta, hanno scimmiottato il «festival»e c'è persino qualcuno che vuol portare a Piedigrotta ...il carnevale di Rio de Janeiro.
Eppure un'illustre musicista americano, Duncan Mac Dougold,ebbe a dire :- «La canzone napoletana ha tutti i requisiti richiesti di vera musicalità e sa esprimere artisticamente i sentimenti e le emozioni di tutto un popolo».
E ancora Vida Bendix la grande stella della B.B.C.(radiotelevisione britannica): - «La canzone napoletana è l'indefinito dell'infinito. Tutti ne amano la musica. Le parole sono la più delicata e perfetta espressione che l'anima umana possa raggiungere. I poeti napoletani hanno dentro di loro un riflettore che è l'osservazione ed un condensatore che è la commozione».
Ecco perché Libero Bovio diceva :

'A canzone d'è canzone,
ch'hann 'a fa, è napulitana...

Mi scusino i lettori, questo preambolo era veramente utile prima di parlare del maestro ErnestoTagliaferri, uno dei più grandi, se non il più grande fra gli autori di musica di canzoni napoletane.

*** *** ***

Ernesto Tagliaferri nacque a Napoli il 18 novembre 1888, nel popoloso e popolare borgo di S. Antonio Abate.
Il padre, Giuseppe, faceva il barbiere e, come tutti i barbieri, anche se il pavimento della sua bottega si riduceva a pochissimi metri quadrati di superficie la chiamava «Salone».
Era suo vivo desiderio che l'unico figliolo intraprendesse il mestiere paterno, mentre il rampollo provava, e lo dimostrava in tutti i modi, una formidabile antipatia per i rasoi, i pettini, le forbici e le coramelle.
Infatti, raggiunta una certa età, «Ernestone» (era alto quasi due metri) invece del «Salone» frequentava il Conservatorio di Musica di S. Pietre a Maiella.
Dopo il conseguimento del diploma vince il concorso per un posto di primo violino al Real Teatro di San Carlo.
Nel 1912 Ernesto compose la musica per una «Rumanzetta militare»su versi di E. A. Mario, tanto per affilare le armi.
L'ingresso ufficiale, nel mondo della canzone, avvenne nel 1915, quando musicò una poesia di Libero Bovio «Napule Canta»

Pusilleco se stenne
quase straccquato
'ncopp'ò mare d'oro
comme a 'nu ninno
ca se vo addurmì...

Erano gli anni della prima guerra mondiale ed Ernesto indossò il grigio-verde.
Nel 1920 sulla collina di Posillipo costruirono un grande parco. Aprirono nuove strade e fu necessario devastare una estesa zona fino al Capo. Furono abbattuti alberi, casette coloniche, furono distrutti giardini.
Ernesto Murolo (l'altro Ernesto) addolorato per tanto «scempio» esprimeva il suo rammarico ad Ernesto Tagliaferri che, dopo averlo ascoltato, condividendo l'indignazione, disse : - E' finito tutto, Ernè!...Napule se ne va!...Murolo ripeté fra le labbra : Napule se ne va!...I loro sguardi s'incontrarono. Nei loro occhi velati di tristezza guizzò il sorriso, si compresero, così venne fuori :
Napule ca se ne va!...

E 'a luna guarda e dice
si fosse ancora overo
Chisto è o popolo è 'na vota...
gente semplice e felice
Chisto è Napoli sincero
ca...pur isso se ne va.

Ha inizio quella felice collaborazione fra i due «Ernesti» che dovevano lasciare a Napoli ed al mondo un patrimonio artistico di così grande valore.
Le canzoni le traevano dal vero. Erano sovente insieme. Le mete preferite erano le «Cantenelle» di Posillipo, di Villanova e quelle sulle scogliere di Mergellina e di Marechiaro ed in quelle cornici stupende componevano i loro immortali capolavori...Si consigliavano a vicenda, quasi che in ultimo (accadeva qualche volta) non sapevano chi avesse scritto i versi e chi avesse composto la musica.
La più bella, immensamente bella fu «Mandulinata a Napule»:

Sera d'Està! Pusilleco lucente
canta canzone, e addora d'erba e mare...
voglio 'e parole cchiù d'ammore ardente
Voglio 'e parole cchiù gentile e care
pe ddi:... «Te voglio bene...» a chi me sente.

E voi pensate che dal Vomero o da un posto qualsiasi vedendo entrare un transatlantico «i due» non buttassero giù una canzone nel modo più semplice, naturale ed estemporaneo? Eccola:

Oi furastiere 'e fore
ca staie trasenne a buordo a stu vapore
si vuò fa buono statte sempre cca
ca tutt'o munno è «Napule» Che vai giranno a ffà!

Sono i versi della canzone «E furastiere a Napule», non tanto conosciuta, ma non per questo senza pregi artistici, immancabili in tutta la produzione a firma Murolo-Tagliaferri.
Posillipo è l'ingrediente base delle loro canzoni. Evidentemente i «due Ernesti» erano innamoratissimi della vigiliana collina.Quindi non poteva mancare «Piscatore e pusilleco»

Dorme 'o mare...O bella viene!
Ncielo à luna seglie e va
Vita mia!
Vita mia....me vuò bene?
Ca si è suonno...Nun farme scetà.

*** *** ***

Un giovanotto torrese prendeva lezione di violino dal maestro Tagliaferri, si chiamava: Pasqualino d'Orlando. Fra una lezione e l'altra, fra il rosolio ed una tazzina di caffè, Ernesto e Lucia, sorella di Pasqualino, si innamorarono e si sposarono. Così il maestro divenne «torrese-napoletano» e amò ricambiato Torre come Napoli ed i Torresi come i Napoletani.
La usa vita era intensa. Oltre alla composizione, egli doveva preparare l'orchestrazione e i cantanti, fra i quali anche le «stelle» di prima grandezza.
Elvira Donnarumma, negli ultimi tempi non cantava se l'orchestra non era diretta da Ernesto Tagliaferri. Era il più contese direttore d'orchestra. Il suo nome sulle locandine teatrali era indice di sicuro successo. Fu il primo a portare sul palcoscenico il complesso orchestrale e le orchestrine a plettro.
Aveva un carattere esuberante ; come si dice a Napoli, era un «palazzuolo». Negli spettacoli e alle prove, con i cantanti e gli orchestrali era inflessibile nella esecuzione. Se qualcuno sbagliava urlava come un ossesso. Diventava persino volgare. Ma se qualcuno (a quei tempi si guadagnava poco o niente) aveva bisogno d'aiuto per indigenza o per malattia, le spesse lenti dei suoi occhiali si inumidivano di lacrime e dava con la più grande generosità e premura. Una delle ragioni, questa, dell'un animo rimpianto dopo tanti anni della sua dipartita.
Nei versi di Murolo e nella musica di Tagliaferri (allora la musica esprimeva proprio quello che i versi volevano esprimere) non esistono ombre. Sono tanti inni all'amore, alla semplicità, alla sincerità. Cerchereste invano un minimo accenno alla gelosia, ai tradimenti o alla disperazione. Se c'è qualche lacrima, è lacrima di gioia, di felicità.
Lo scenario che incornicia le canzoni è sempre Napoli con il suo mare e con il suo cielo, lucente di giorno, stellato di notte, come in «Qui fu Napoli»:

...Fuoco e zuccaro 'o mellone
ce stennimmo 'nterra arena...
neve e 'sprin int' 'o giarrone
'ncielo 'e stelle e 'a luna chiena..

Bastava tanto poco per essere felici. Non solo felici, ma anche spensierati, perché dopo qualche fetta di cocomero, un sorso di asprino gelato, qualche bacio della donna amata umido di vino e di «mellone» si poteva aggiungere subito :

E i canto: «Qui fu Napoli...» nisciuno è meglio 'e me
Dimane penso 'e diebbete
stasera sò nu Rrè!...

Oggi si beve «Whisky» si balla «Shake», si hanno i problemi e si... protesta. Il «dermier...cri», l'ultimo grido della moda, è camminare a piedi...nudi. Che novità! Lo faceva «Bacalotto».
(Per i non torresi aggiungiamo che «Bacalotto» era un facchino che in tutto l'arco della sua vita non aveva mai calzato un paio di scarpe. Quando andò militare si pose il problema : o congedarlo o fucilarlo, ma le scarpe no. Lo congedarono. Che grande precursore!).

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Da noi l'esterofilia è stata sempre la forma più deleteria, specialmente nel campo musicale. Nel 1925 fu il caso di «Valencia» e «Paquita».
Finché durerà il mondo, nessuna canzone avrà mai il successo e la popolarità di «Valencia». Fu una follia universale. Allora in c'erano i mezzi di diffusione che abbiamo oggi; eppure quella canzone allegra, spensierata si diffuse in tutto il mondo, fin negli angoli più remoti. Anche la persona più austera non resisteva al fascino di quel motivo.
L'autore fu uno spagnolo : Josè Padilla, da qualche anno scomparso. La rapidità della diffusione fu tale, che l'autore dalla sua abitazione udì qualcuno che sulle scale fischiettava il motivo della canzone da lui pochi giorni prima mandata alla casa editrice. Era il postino che gli portava la lettera con la quale l'editore gli annunciava l'avvenuta pubblicazione.
Fu allora che in chiave polemica nacque «Tarantella Internazionale». Era l'estate del 1926.
«Ernestone» si accingeva a mettersi a tavola con la buona signora Lucia in uno dei pochi giorni che trascorreva nella quiete familiare, quando squillò il campanello dell'uscio. - Chi sarà a quest'ora? Uffa! - esclamò il maestro, mentre la signora andava ad aprire. - Ernè!...Ernè!...ma chiste che vonno?!...- Era Murolo che entrando in casa gridava come un matto. - Chiste che vonno? - Era fuori di sé - Che vonno? Valencia! Paquita!...tutto questo è roba nostra! Iamme Ernè, piglia il violino. Andiamo al pianoforte. Avanti muoviti! Il maestro, guardando il caro amico con calma e con un sorriso sornione, supplicò: - Ernè, magnammo prima!...
Durante il pranzo si scambiarono qualche idea e dopo, nel breve tempo in cui donna Lucia preparò il caffè, nacque «Tarantella Internazionale».

Quà spagnola? quà americana?
Ma s' 'o credono o fanno apposta?
Chest'è musica paesana!!!
Chest'è ppane d' à casa nosta!
Chest'è Napule quann'abballa
... Tarantella... tarantè...

E quante altre ancora: - Nun me scetà - Adduormete cu mme - Ammore canta - 'A Canzona d'à felicità - O Canto è Mariarosa - Quanno ammore vo filà - A Canzone d'e stelle - Vela a mmare - Napule e Surriento - Mbracce a tte -
tutti versi di Ernesto Murolo. E ancora tante altre, fra le quali: Passa la ronda e Burattini.

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Con la fondazione della Casa Editrice «La bottega dei 4» (Bovio - Lama - Tagliaferri - Valente) il maestro riprese la collaborazione con Libero Bovio.
Frattanto era venuto ad abitare a Torre del Greco, in quella bella villa che è Villa Liguori al Miglio d'oro. Aveva trovato a Torre un gruppo di amici con i quali trascorreva volentieri il poco tempo consentitogli dalla sua intensa attività. Avrebbe dovuto diminuire un poco il lavoro, evitare la direzione degli spettacoli per non fare le ore piccole, disertare le cene dopo-teatro con gli artisti e le artiste. Non lo «mollavano», tutti volevano Enrico. L'affetto e la stima che godeva era troppo, era immensa e poi anch'egli «ci stava».
La morte lo aggredì di sorpresa una mattina sulle scale di casa, mentre usciva per recarsi a Napoli, alla «Bottega dei 4». Pareva che la sua forte fibra volesse resistere al male, invece il 6 marzo 1937 il grande cantore di Napoli, l' «arpa di David», come lo definì il poeta Tullio Gentile, tacque per sempre. Aveva poco più di 48 anni.
Non ricordo di aver visto mai tanti fiori. Un grande cuore composto di mammole fu messo al suo fianco. Era stato inviato da Gilda Mignonette, che da New York telefonò supplicando di metterlo vicino al maestro, il più vicino possibile. Editori, poeti, musicisti, tutti i lavoratori del teatro e del cinema resero il loro commosso omaggio alla sua salma.
Il feretro fu portato in S. Croce . La piazza antistante la chiesa era gremita fino all'inverosimile. Sul sagrato, prima di sciogliere il corteo, Libero Bovio pronunziò il discorso d'addio. E quando il carro si mosse, un grido accorato, straziante rintronò nella piazza. Era Bovio che con la voce rotta dai singhiozzi dall'alto del sagrato urlò: - Ernè... Ernè, te ne vaie?! In quella moltitudine non ci fu uno, uno soltanto che rimase col ciglio asciutto.
L'ultima canzone fu postuma. Alcuni appunti ritrovati dopo la sua morte furono rielaborati da Nicola Valente e Bovio adattò i versi. La canzone si chiamò: «Chitarra nera» e fu quasi un testamento spirituale dello scomparso:

Cumpagne mieie cantate sottavoce
pecchè stu core tanno trova pace
quanno 'na stella mmiezzo 'o cielo luce
quanno 'a canzone 'e Napule è felice...
Cumpagne mieie cantate sottavoce

*** *** ***

Egli riposa sull'alto della collina di Poggioreale. Il busto di bronzo che lo raffigura in maniera perfetta (opera del prof. Giuseppe Palomba) volge le spalle alla città. Sembra che le abbia voltate di proposito in segno di dispetto verso la sua amata Napoli che napulitano nun canta cchiù.
Direbbe oggi Murolo: - Ernè! Napule se n'è andata davvero!!!