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Tratto dal n°11-12T
de LA TORRE -
24 Giugno 1968
 
 
Fatti e figure del passato
 
«Sogno» ad occhi aperti
 

di RAFFAELE RAIMONDO

Sono nella piazza principale della mia città. Bighellonare senza avere nulla da fare non mi accade di frequente. Lo sguardo si posa su cose che parlano al mio cuore. Mi parlano perché le amo.
Qualche volta, verso l'imbrunire, ho avuto l'occasione di poggiare le mani sulle pietre del campanile della chiesa; ebbene quelle pietre riscaldate dal sole già tramontato mi hanno ricordato il tepore della mia mamma quando, piccolo, mi serrava tra le sue braccia. E da quelle pietre ho attinto il calore della mia mamma più grande: la mia città. La più bella del mondo.
Anche oggi?... Sì! Anche oggi! perché quando la mamma soffre, allora la si ama di più.
Eppoi come si potrebbe non amare questo immenso triangolo con la base poggiata sul più bel mare ed il vertice incollato sulla cima del più simpatico vulcano della Terra?
La piazza è sfolgorante di sole. Non una traccia d'ombra. I vecchi lecci se ne andarono sotto i colpi di accetta ed il mordere rabbioso delle seghe. Quando il delitto fu commesso, ricordo, non riuscii a distinguere se fossero le seghe a stridere o quei poveri alberi a emettere i loro ultimi, laceranti urli di dolore, prima di morire.
Si disse che toglievano gli alberi, perché sotto di essi andavano alcuni vecchi a spidocchiarsi; invece furono abbattuti per fare spazio alle automobili. Il ragionamento era logico. Le automobili dei loro tubi di scarico sprigionano anidride solforosa, gli alberi producono ossigeno: perciò abbatterono gli alberi.
Al posto in cui ora spicca un cerchio di aride zolle, vedo, così com'era, la leggiadrissima piattaforma di ferro battuto per il concerto bandistico municipale.
Lo scempio ebbe inizio nel 1953 quando, per attaccarvi delle banalissime luminarie, incominciarono col mandare in frantumi l'artistico lampione centrale, poi testardi, ragionando sempre alla loro maniera, spazzarono via la ringhiera ed i sedili per impedire che «...i vecchi andassero ecc. ecc». E non era vero.
Poi a quel posto costruirono una fontana che nessuno potrà mai descrivere. Era tale una specie di aborto che, naturalmente, non ebbe vita.Il colore predominante è il giallo.
Il sole a picco sulla piazza la fa sembrare una enorme frittata ed il bianco della facciata del tempio è il piatto che la contiene.
Rivedo una porta eternamente chiusa da una vecchia saracinesca intasata di polvere ed incrostata di ruggine, dietro quella porta c'era lo schermo del cinema «Splendor», l'unico cinema esistente a Torre del Greco a quei tempi. Presso quella porta chiusa rivedo un uomo che vende i più disparati oggetti al prezzo fisso di una lira ed una e novanta al pezzo: -'O bazar americano chi fa spesa!?
Al di qua dell'angolo ancora un'altra porta dipinta di verde, con un grosso ventilatore incastrato in essa e con la scritta: «III Posti».Sull'uscio rivedo Carolina (che non era quella di Marechiaro) con la frusta ed uno sciame di scugnizzi che fa ressa per entrare. In mezzo ad essi un ragazzo sui dieci anni vestito di bianco con il colletto a risvolto va al cinema nei terzi posti (venticinque centesimi).
La mamma gli aveva detto: - Va' nei posto migliori, non sporcarti il vestito, ti racomando. - Ma il ragazzo con la differenza di prezzo aveva comprato le «macedonia».
Nel cinema durante la proiezione alcuni scugnizzi incominciarono a burlarlo chiamandolo il signorino, fin quando il «signorino» non è costretto a reagire provocando l'accensione delle luci in sala, fra le grida di tutti e sotto le frustate di Carolina che lo fa uscire dal cinema.
Addio William S.Hart, Plum (Monty Banks) e Saltarello (Buster Heaton) e addio vestito bianco...
Alzando gli occhi e guardando la chiesa, vedo un'imperfezione nel timpano.
La vedo sempre, fin da quando la scoprii o credetti di averla scoperta. Forse quell'imperfezione non c'è neppure, perché quando cercai di farla notare al prof. Taverna, ebbi l'impressione nette che non ne era tanto convinto.
Il mio sguardo va o0ra sulla sommità del campanile ed il mio pensiero vola ad Ivo Aprigliano: non fu l'architetto che progettò il campanile, era un famoso equilibrista.
Al campanile rivedo agganciato un filo d'acciaio che, attraversando la luce della piazza, va ad infilarsi in un lucernario del tetto del palazzo Rivellino.
Tre cavalletti equidistanti giù, ai piedi della scalea, tengono il filo teso e sotto di esso v'è la rete di protezione.
Vedo farsi buio e rivedo, come allora, il nereggiare della folla ed i balconi gremiti. Poi si accendono i riflettori che illuminano il filo per tutta la sua lunghezza, ed ecco Aprigliano apparire con la tuta di seta azzurra ed avanzare sul filo, a passo felpato al tempo di un ritmo eseguito da un complesso musicale nella piazza sottostante, tenendo ben salda nelle mani la pesante asse di equilibrio.
Va a sedersi a metà percorso e nel più assoluto silenzio annunzia: - Rispettabile pubblico, adesso vado a preparare un esercizio molto pericoloso!...
Quel giovane equilibrista fece perdere...l'equilibrio a più di una signorina di buona famiglia... Non vi era ragazza di Torre che non custodisse, fra le sue cose, una foto di Ivo Aprigliano con l'autografo a stampa, un clichè retinato di colore azzurro.
Qualche lettrice con i capelli d'argento (naturali) sentirà il cuore accelerare i battiti ed il ciglio inumidirsi.

Mi avvicino a quel vagone ferroviario che è l'attuale edicola e, mentre osservo le pubblicazioni esposte, il mio pensiero va ad una signora sconosciuta che trova i miei scritti un po'volgari, anche se piacevoli (bontà sua). Mi viene subito la voglia di dedicarle un madrigale:

Gentilissima dama sconosciuta
lei che mi accusa di volgarità,
al cinema, si vede, non c'è ghiuta
e non vede in giro tanta oscenità...

Rivedo esposti i vecchi giornali: Il Secolo Illustrato, «Novella» che non era ancora 2000 cioè non era ancora diventata un'antologia di cronaca nera. La rivedo in quella caratteristica veste tipografica di colore violetto, con la testata del pittore Guido Marrusig e nel sommario i nomi dei suoi illustri redattori: Massimo Bentempelli, Enrico Cavacchioli, Antonio Aniante, Filippo Tommaso Marinetti, Corrado Alvaro, Leonida Repaci, Bruno Corra, Mura e tanti altri ancora.
Rivedo il vecchio «Travaso delle idee» diretto da Toddi (a proposito lo sapevate che l'usanza di esporre la coccarda per i lieti eventi fu inventata da Toddi?) con le vignette e le caricature di Onorato, di Apolloni, di Bompard, di Seta, di Dudovich, di Camerini ecc. Quel capolavoro di settimanale umoristico non esiste più. Oggi tutto è «sexy», pallone e canzoni.
Sogno la «tenda rossa», della sfortunata spedizione polare di Umberto Nobile col dirigibile «Italia». Era quelli, i tempi di De Pinedo, Ferrarin, Del Prete, Maddalena, Cecconi, Da Monti, De Bernardi...
Quelli uomini portavano i capelli corti, non protestavano, erano i più grandi aviatori del mondo, e parecchi di essi morirono per dare onore alla Patria.
L'edicola di allora, il vecchio chiosco ottagonale, esponeva al pubblico quegli avvenimenti illustrati da Achille Beltrame, sulla copertina della Domenica del Corriere o disegnati da Aldo Molinari sulla «Piccola». Le pubblicazioni a sfondo scandalistico e sessuale non si pubblicavano, non se ne aveva nemmeno l'idea.
I settimanali più spinti erano «L'Amore illustrato» e «La sigaretta». Roba da collegiali.
Fra i vecchi giornali vedo «Giretiello» l'edicolante. Lo chiamavano il «giornalista»: era un uomo tarchiato ed avava una guancia deturpa
ta da una lunga cicatrice. Disgrazia o «guapparia?».
Portava il cappello a sghimbescio e camminava con andatura spavalda. Al gilet una catena dalla quale pendeva un grosso corno di corallo.
«Giritiello» era lo strillone per antonomasia, tanto era poderosa la sua voce.
Quello che si poteva leggere allora era di ottima qualità e non si leggeva. Oggi è di pessimo gusto, la gente se lo succhia e quello che è più grave lo assimila.
Di giornali se ne vendevano pochi e solo un fatto clamoroso o interessante aumentava la richiesta.
«Giritiello» il fatto interessante, secondo lui, lo aveva trovato e spesso gridava:
- L'eruzione del Vesuvio!...'O Matino!...Inutile dirvi che nel giornale non c'era nessuna notizia sul Vesuvio, il quale se ne stava buono, fumando pacificamente, e nemmeno si parlava di eruzione avvenuta nelle Hawai, nel Cile e tanto meno nel Giappone.
Il «regista» del mio sogno da «Giritiello» passa ai fratelli de Robertis e non a caso come saprete in seguito.

I fratelli De Robertis detti «Cibitiello» erano sette. Quando si riunivano formavano la banda musicale. Essi non possedevano strumenti e non conoscevano neppure una nota.Ognuno di loro imitava il suono, chi della cornetta, chi del clarino, chi del basso ecc. Erano insomma dei buoni temponi.
Il più conosciuto dei fratelli era Vincenzo che disdegnava il dialetto e parlava solo in lingua. Quando era «all'asciutto» andava a sedersi sui sedili in ferro della piattaforma da concerto al centro della piazza ove spesso la raggiungeva il rag. Salvatore Vitiello che, fingendo di pronunziare «vongole», lo faceva andare in bestia: - Caro Don Vincenzo, buona sera! - Buona sera - rispondeva sollecito De Robertis. Il ragioniere faceva cadere la discussione su qualche avvenimento e poi: - Caro don Vincenzo voi dite che non è così. Ed io vi dico che è proprio così, perché adesso ho finito di parlare con Giritiello il giornalista. -
Don Vincenzo si stringeva sulle spalle e storcendo la bocca: - Ecco qui! Giornalista!... Ssstt! Si dice giornalaio, non giornalista. - Facendo finta di niente, con il suo volto impassibile e canzonatorio il rag. Vitiello si siedeva al suo fianco, ravvivava il dialogo e dopo un po' di tempo: - Don Vincè, eccolo là, lo vogliamo chiamare? - Chi! - domandava don Vincenzo, ed il ragioniere facendo sforzi per trattenere il riso: - Il «giornalista»! Don Vincenzo alzava le mani al cielo: - Un'altra volta?! Si dice giornalaioooo! Il giornalista non è quello! - E perdendo la pazienza, nell'impeto della rabbia passava eccezionalmente al dialetto: - Neh, ragiunié, a tte chi t'à dato 'a «laurea» 'e ragiuniere?...
Quando non era «all'asciutto» don Vincenzo se ne andava all'osteria che era definito luogo di perdizione al tempo in cui si faceva la lotta contro l'alcoolismo. Oggi in nome del progresso si fuma oppio, hascisch, si bevono intrugli di ogni genere e si usano su larga scala narcotici e stupefacenti nonostante i rigori della legge.
All'uscita dall'osteria don Vincenzo se era ubriaco, lo era quasi sempre, si sedeva per terra e «remando» con le braccia si avviava verso casa, non dispiacendosi di intavolare conversazione con i passanti conosciuti e di rispondere a tutti i saluti rivoltigli in italiano perché a quelli in dialetto non rispondeva.
- Buona sera don Vincenzo: - Buona sera. - Come state don Vincenzo? - Benissimo, grazie e voi? - E remando proseguiva il suo «cammino».

In un angolo rivedo manovrare il fotografo, che era, come si dice, una persona istruita, in una manica di giacca inchiodata alla cassetta sul treppiedi e poi tirare fuori un pezzo di carta bagnata. Quel pezzo di carta dovrebbe essere la fotografia di un giovanotto, con paglietta e bastoncino, il quale esprime i suoi dubbi circa la rassomiglianza. Il fotografo rassicurandolo gli dice che nemmeno un cine-operatore della Metro Goldiwing Mayer avrebbe potuto fare un simile capolavoro.
Rivedo un vecchio con un'altra cassetta su un altro treppiedi. Alla cassetta è fissato un binocolo dal quale si può vedere, previo pagamento di dieci centesimi, una diecina di diapositive di alcune grandi città. Il vecchio, esagerando, con flebile voce invita i ragazzi: - Se vede tutto 'o munno!...
Ed ancora un'altro, dalla faccia indisponente da truffatore, recante un'altra cassetta piena di fili elettrici, isolatori e lampadine bruciate, con un atteggiamento da Guglielmo Marconi, pretende di indovinare anche a chilometri di distanza, pensieri ed avvenimenti, persino i più intimi: - Per fidanzate, per maritate, per parenti lontani...qualunque pensiero!...
E rivedo sotto la lapide del Campanile la «bancarella» di Luigi e odo le ruote del tram stridere nella curva, prima di imboccare via Salvatore Noto.

Il «regista» ora mi fa vedere la piazza quasi vuota. Calano le ombre della sera, ed i fanali a gas mandano la loro luce biancastra. Giunge una carrozza. E' una «vittoria» a due cavalli; in serpa sta il cocchiere col cilindro. Sembra una scena descritta da Ponson du Terrail. In quella carrozzella mi pare di scorgere il volto di una donna a me noto. E' una faccia butterata. Ma sì ! E' quella che mia madre chiamava la «commara». Al suo fianco è seduta una signorinella che pure conosco. E' Agnesina, la figlia di don Vincenzo Sorrentino amico di mio padre. La ragazza si ferma ai piedi della scalinata. Ora ho capito: recano un neonato alla fonte battesimale.
La curiosità mi avvince, salgo anch'io i gradini ed entro in chiesa.
Il tempio è in penombra. Pochi ceri accesi con le fiammelle tremule illuminano suggestivamente le immagini dei santi. Il bambino fa sentire i suoi vagiti, ampliati dalle altissime arcate. Pochi attimi di attesa ed ecco un prete lungo con dei piedi enormi, sento chiamarlo don Mariano. Egli si avvicina al fonte seguito dal gruppetto e da pochi curiosi. Mi avvicino. Non capisco una parola: il prete parla velocissimo e per di più in latino. Alcune parole mi sembra però di capire: - Raphael, ego te baptizo in nomine Patris, Filii et Spiritus Sancti...
Sento serrarmi la gola. Mi «sveglio». La piazza è ancora più accecante, mi da fastidio agli occhi, anche perché sono pieni di lacrime...